Sul numero di Agosto di Harvard Business Review - Italia ho commentato l'articolo di Fogel, Hoffmeister, Rocco e Strunk, sull'insegmento delle tecniche di vendita nelle business school. Negli Usa ci si è resi conto che sono poche le università che offrono programmi sul sales management, nonostante la grande richiesta da parte del mercato. Anche in Italia da almeno 20 anni si è abbandonato l'insegnamento di "Tecniche e politiche di vendita" a vantaggio dei corsi di "Marketing". Il risultato è che in tutto il nostro sistema universitario sono rimasti solo 7 corsi che fanno riferimento alle vendite, mentre sono più di 470 quelli che hanno la parola marketing nel titolo. Uno squilibrio tutt’altro che giustificato, considerato che nel mercato del lavoro le opportunità sono molto maggiori in ambito vendite-commerciale, soprattutto ora in tempo di crisi.
Non è detto che l’Italia possa essere considerata a tutti gli effetti una buona “marca”, se si escludono le classiche tre F: fashion, food efurniture, l’origine nostrana non sembra aggiungere granché ai nostri prodotti. Anzi, in alcuni casi tende addirittura a ridurne il valore percepito.. (in allegato il mio articolo uscito su Roma Tre News 2/2011).
Sono almeno tre anni, più o meno dalle prime avvisaglie della crisi economica dalla quale non siamo ancora usciti, che il mondo delle business school si interroga su come migliorare la propria offerta. Del resto. non sono in pochi ad attribuire a loro e all’utilizzo di modelli superati, molti di quei comportamenti sbagliati delle grandi aziende che hanno portato l’economia in una fase di stallo. ... Qui il mio articolo uscito su Affari & Finanza il 23 maggio.
Oggi, per una azienda avere a diposizione dati non è difficile. Anzi, quasi tutte sono consapevoli di averne ben di più di quanti ne riescono a utilizzare. Basti immaginare, per esempio, a tutti quelli che si possono acquisire analizzando gli accessi al proprio sito web, o quelli che vengono registrati dalle casse dei supermercati e dai call center. Il vero problema quindi è un altro: trasformare i numeri grezzi in informazioni, e poi le informazioni in decisioni che consentano all’azienda di essere più competitiva nel proprio mercato.... (in allegato il mio articolo uscito il 27 Giugno su Affari & Finanza)
Non sono certo una novità. Le corporate university esistono dagli anni venti e più o meno verso la fine del secolo scorso hanno vissuto un momento di grande sviluppo, tanto che qualcuno aveva addirittura previsto che il loro rapido successo avrebbe frenato la crescita delle business school. E questo grazie alla loro implicita capacità di erogare corsi di management tagliati su misura per le esigenze delle aziende-madri: un obiettivo difficile da realizzare per le università e le scuole di management, condizionate come erano dalle loro aspirazioni accademiche.... (in allegato il mio articolo uscito il 23 giugno su Affari & Finanza)
In tema di truffe finanziarie gli italiani hanno più di qualcosa da insegnare. Basti pensare all’impatto che ha avuto negli anni il famigerato “schema Ponzi”, ideato agli inizi del secolo scorso dall’italo americano Charles Ponzi, e fonte di ispirazione per una infinità di manager criminali, compreso il principe di tutti i truffatori: Bernard Madoff. Fino ad arrivare alla vicenda Parmalat, che ha dato luogo al più grande scandalo di bancarotta fraudolenta perpetrato da una società privata in Europa. Chissà che Callisto Tanzi, o qualche suo stretto collaboratore, non vengano invitati a insegnare in una università italiana, proprio come avviene alla prestigiosa business school statunitense Tuck, dove le testimonianze dei criminali della finanza sono inserite nei corsi di etica d’impresa. (nel pdf il mio articolo uscito il 21 marzo su Repubblica - Affari & Finanza)
Negli ultimi mesi mi è stato chiesto di spiegare a imprenditori e studenti universitari (in India e negli Emirati Arabi) le nostre caratteristiche fondamentali: per farlo nel modo più oggettivo possibile ho analizzato la scarsa letteratura sul tema, integrandola con alcune interviste a top manager di multinazionali presenti in Italia e a guru del management. Sono emerse alcune evidenze che per certi versi mettono in discussione l’opinione che abbiamo di noi stessi. A partire dalla creatività: una dote che non ci viene riconosciuta da tutti. Per esempio, Edward de Bono, forse il massimo esperto dell’argomento, ha detto al riguardo: «Il problema è che voi italiani confondete la vostra innata capacità nel campo della moda con la creatività, che invece è un’altra cosa».Cercando quindi una chiave di lettura che mi consentisse di raccontare gli italiani facendo ordine tra realtà, stereotipi e incoerenze, sono arrivato a selezionare quelle “otto caratteristiche” che, in un certo senso, rendono gli italiani simili ai cellulari e che è bene che gli stranieri conoscano prima di avviare un business con noi.
Il dato di fondo è che lo sviluppo dei media digitali sta arricchendo la cassetta degli attrezzi del comunicatore di una gran quantità di nuovi strumenti e opportunità. Fino a poco tempo fa, si parlava soprattutto di "above" e "below" the line, per evidenziare la banale distinzione tra pubblicità e le altre attività, oggi si parla di on-line e off-line, di fisso e mobile, di analogico e digitale….. ma in realtà è sempre più difficile individuare categorie chiare perché tutta la comunicazione finisce fatalmente per essere un’articolata combinazione di tecnologie vecchie e nuove, personali e impersonali..... Dal mio commento (pubblicato su Harvard Business Review - Italia di dicembre 2010) all'articolo all'articolo di Patrick Spenner "un direttore dei nuovi media un po' speciale".